giovedì 22 ottobre 2009

La creazione della pioggia


I racconti di mio nonno

Quando venne creata la terra ogni animale aveva una sua funzione. Tutti servivano a qualcosa.
I pesci popolavano i mari e i laghi, gli uccelli il cielo, i grossi animali le pianure estese.
Solo le rane non avevano un loro posto e una loro funzione; così si riunirono tutte e cominciarono a chiedere al cielo un aiuto.
Il cielo non sapendo cosa fargli fare, e rendendosi conto che mancava ancora la pioggia, decise che le rane sarebbero state le "chiamatrici" della pioggia.

Ed è per questo che quando le rane cantano, la pioggia arriva.


Leggenda legata agli indios brasiliani.

Anticamente sulla terra non cadeva mai pioggia, sicchè un giorno, nella laguna del cielo, un indio Kaxinawà gettò un pesce dorato in direzione dell'uccello pescatore. Il volatile si lanciò sull'inaspettata preda e, così facendo liberò il foro che con le zampe stava otturando. Sulla terra piovve per la prima volta.

Ancor oggi, prima che la pioggia cada, il cielo è pervaso da bagliori: sono i pesci dorati lanciati dall'indio. E la fine pioggerellina che a volte scende indica che, per la concitata attesa del volo, l'uccello pescatore si sta equilibrando su di una zampa sola.


Mito africano

Quando il mondo fu creato, la pioggia non esisteva. Gli animali erano preoccupati e si riunirono a gruppi per invocare la pioggia lanciando le loro voci verso il cielo. Prima provarono gli elefanti, coi loro barriti, poi gli ippopotami e poi i leoni, ma la pioggia non arrivava. Poi toccò alle giraffe, e agli animali più piccoli: i fenicotteri, i conigli e i topi. Ancora niente. Per ultime toccava alle rane. Tutti gli animali le implorarono di gridare verso il cielo il loro bisogno di acqua. Le rane non aspettavano altro per mettersi a gracidare e così presero a cantare tutte insieme e il loro grido era talmente assordante e sgradevole che il cielo si stancò di sentirlo e si coprì di nubi per attutire quel suono. Ma fu inutile: il gracidio penetrava attraverso la cortina di nubi e così il cielo pensò di affogare le rane per farle smettere una volta per tutte. Mandò giù tanta di quella pioggia che le rane finalmente tacquero contente. E da allora si credono padrone dell'acqua, perchè furono loro a far piovere, e vivono in ogni stagno nella melma, e continuano a gracidare per chiedere la pioggia.

Fonte: Il mito

lunedì 19 ottobre 2009

Amore e Psiche


"Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. "Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell’alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l’ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. "Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d’averlo generato. Ai piedi del letto erano l’arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio".

Psiche vede Amore- Lucio Apuleio

Un re ed una regina avevano tre figlie. Le maggiori erano andate in spose a pretendenti di sangue reale, ma la più piccola, di nome Psiche, era talmente bella che nessun uomo osava corteggiarla, tutti l’adoravano come fosse una dea. Alcuni credevano che si trattasse dell’incarnazione di Venere sulla terra. Tutti adoravano e rendevano omaggio a Psiche trascurando però gli altari della vera dea, perfino i templi di Cnido, Pafo e Citera erano disertati per una mortale. Afrodite sentendosi trascurata ed offesa, a causa di una mortale, pensò di vendicarsi con l’aiuto di suo figlio Amore e delle frecce amorose. La vendetta d’Afrodite consisteva di far innamorare Psiche dell’uomo più sfortunato della terra, con il quale doveva condurre una vita di povertà e di dolore. Amore accettò subito la proposta della madre ma, appena vide Psiche rimase incantato della sua bellezza. Confuso dalla splendida visione, fece cadere sul suo stesso piede la freccia preparata per Psiche cadendo cosi, vittima del suo stesso inganno. Egli iniziò cosi ad amare la ragazza e non pensò neanche per un attimo di farle del male. Nel frattempo i genitori di Psiche si preoccupavano perché un gran numero di pretendenti veniva ad ammirare la figlia, ma nessuno aveva il coraggio di sposarla. Il padre, preoccupato decise di consultare un oracolo d’Apollo per sapere se la figlia avesse trovato un marito, l’oracolo però gli comunicò una brutta notizia. Egli avrebbe dovuto lasciare la figlia sulla sommità di una montagna, vestita con abito nuziale. Qui essa sarebbe stata corteggiata da un personaggio temuto dagli stessi dei. Malgrado questo, i genitori non volendo disubbidire alle predizioni dell’oracolo, portarono, al calar del sole, Psiche sulla montagna prescelta vestita di nozze, e la lasciarono lì sola al buio. Solo quando lei restò da sola venne uno Zefiro che la sollevò e la trasportò in volo su un letto di fiori profumati. Psiche si svegliò quando sorse il sole e guardandosi attorno vide un torrente che scorreva all’interno di un boschetto. Sulle rive di questo torrente s’innalzava un palazzo d’aspetto cosi nobile da sembrare quello di un dio. Psiche, quando trovò il coraggio di entrare, scoprì che le sale interne erano più splendide, tutte ricolme di tesori provenienti da ogni parte del mondo, ma la cosa più strana era che tutte quelle ricchezze sembravano abbandonate. Lei di tanto in tanto si domandava di chi fossero tutti quei beni preziosi, e delle voci gli rispondevano che era tutto suo e che loro erano dei servitori al suo servizio. Giunta la sera lei si coricò su un giaciglio e sentì un’ombra che riposava al suo fianco, si spaventò, ma subito dopo, un caldo abbraccio la avvolse e sentì una voce mormorarle che lui era il suo sposo, e che non doveva chiedere chi fosse ma soprattutto non cercare di guardarlo, ma di accontentarsi del suo amore. La soffice voce e le morbide carezze vinsero il cuore di Psiche e lei non fece più domande. Per tutta la notte si scambiarono parole d’amore, ma prima che l’alba arrivasse, il misterioso marito sparì, promettendole che sarebbe tornato appena la notte fosse nuovamente calata. Psiche attendeva con ansia la notte, e con questo l’arrivo del suo invisibile marito, ma i giorni erano lunghi e solitari, quindi decise, con l’assenso del marito, di fare venire le sue sorelle, anche se Amore l’avvertì che sarebbero state causa di dolore e d’infelicità. Il giorno seguente, un Zefiro portò le due sorelle da Psiche, lei fu felice di rivederle, e le due non furono di meno vedendo le ricchezze che possedeva. Ogni volta che le due facevano domande sul marito, Psiche sviava sempre la risposta o rispondeva che era un ricco re che per tutto il giorno andava a caccia. Le sorelle s’insospettirono delle strane risposte che dava Psiche, loro credevano che stesse nascondendo il marito perché era un mostro. Queste allusioni Psiche li smentì tutte, fino a quando non cedette e raccontò che lei non aveva mai visto il marito e che non conosceva nemmeno il suo nome. Allora le due maligne, accecate dalla gelosia, insinuarono nella mente della povera ragazza che suo marito doveva essere un mostro il quale nonostante le sue belle parole non avrebbe tardato a divorarla nel sonno. Quella notte come sempre Amore raggiunse Psiche e dopo averla abbracciata si addormentò. Quando fu sicura che egli dormisse, si alzò e prese una lampada per vederlo e un coltello nel caso in cui le avrebbe fatto del male. Avvicinandosi al marito la luce della lampada gli rivelò il più magnifico dei mostri, Amore era disteso, coi riccioli sparsi sulle guance rosate e le sue ali stavano dolcemente ripiegate sopra le spalle. Accanto a lui c’erano il suo arco e la sua faretra. La ragazza prese fra le mani una delle frecce dalla punta dorata, e subito fu infiammata di rinnovato amore per suo marito. Psiche moriva dalla voglia di baciarlo e sporgendosi, su di lui, fece cadere sulla sua spalla una goccia d’olio bollente dalla lampada. Svegliato di soprassalto, Amore balzò in piedi e capì quello che era successo e disse che lei aveva rovinato il loro amore e che ora erano costretti a separarsi per sempre. Lei si gettò ai suoi piedi ma Amore dispiegò le ali e scomparve nell’aria e con lui anche il castello. La povera Psiche si ritrovò da sola nel buio, chiamando invano l’amore che lei stessa aveva fatto svanire. Il primo pensiero di Psiche fu quello della morte, correndo verso la riva di un fiume lei si gettò dentro ma la corrente pietosa la riportò sull’altra riva, cosi iniziò a vagare per il mondo a cercare il suo amore. Amore, invece, tormentato dalla febbre per la spalla bruciata, o forse dallo stesso dolore di Psiche, trovò rifugio presso la dimora materna. Afrodite, quando venne a sapere che suo figlio aveva osato amare una mortale, che tra l’altro sua rivale, lo aggredì. Ma non potendo fare niente di male al figlio pensò di vendicarsi su Psiche, e con il permesso di Zeus mandò Ermes in giro per il mondo a divulgare la notizia che Psiche doveva essere punita come nemica degli dei, e che il premio per la sua cattura sarebbero stati sette baci che la stessa dea avrebbe donato. La notizia giunse fino alle orecchie di Psiche, che decise di sua volontà di andare sull’Olimpo a chiedere perdono. Appena arrivata sull’Olimpo, Afrodite, le strappò i vestiti e la fece flagellare, affermandole che questa era la punizione di una suocera addolorata per il figlio malato. Dopodiché le ordinò di ammucchiare un cumulo di grano, orzo, miglio e altri semi; di prendere un ciuffo di lana dal dorso di una pecora selvatica dal manto dorato; di riempire un’urna con le acque delle sorgenti dello Stige. In poche parole tutti compiti impossibili, che però Psiche riuscì a compiere con l’aiuto di formiche, che accumularono il grano, di una ninfa, che le spiegò come e quando avvicinare la pecora, e perfino dell’aquila di Zeus, che l’aiutò a prelevare le acque dello Stige. Queste erano solo alcune delle crudeltà che Afrodite infliggeva alla povera Psiche, ma quando Amore seppe di quello che stava succedendo in casa di sua madre, salì sull’Olimpo da Zeus per permettere il suo matrimonio con Psiche. Zeus, non potendo rifiutare la supplica di Amore, fece riunire tutti gli dei dove partecipò anche Psiche. A questa assemblea Zeus decise di elevare al grado di dea, Psiche. Cosi dicendo egli diede la coppa di nettare divino alla mortale che accettò con molta paura. Dopo svariate sofferenze, Psiche fu ben accolta sull’Olimpo, anche da sua suocera poiché aveva ridonato il sorriso al figlio, lo stesso giorno fu allestito un banchetto nuziale per festeggiare la nuova coppia. Amore e Psiche avevano trovato la felicità, ed il loro figlio fu una splendida femminuccia, alla quale fu dato il nome di Voluttà.

lunedì 12 ottobre 2009

A oriente del sole e a occidente della luna

Oggi c'è stato un vento fortissimo.
Guardavo le fronde degli alberi scosse e ricordavo ad un'antica fiaba.
Una fiaba norvegese che narra di una donna che cavalca il vento del nord, per correre a salvare il suo principe imprigionato.


C'era una volta un povero contadino con la casa piena di figli, ma non aveva gran che da offrir loro per nutrirsi e vestirsi, belli erano tutti ma la più bella, incredibilmente bella, era la figlia minore.Era un giovedì sera alla fine dell'autunno, fuori il tempo era brutto ed era molto buio, pioveva e tirava un vento da far scricchiolare le pareti; sedevano intorno al camino e tutti avevano qualcosa da fare. All'improvviso qualcuno bussò tre volte alla finestra. L'uomo uscì per vedere cosa succedeva, e una volta fuori si trovò di fronte un grandissimo orso bianco. "Buonasera", disse l'orso bianco. "Buonasera", rispose l'uomo. "Se mi darai la tua figlia minore ti farò tanto ricco quanto ora sei povero" disse quello. Bè, all'uomo sembrava proprio una fortuna poter diventare ricco, ma pensò che prima avrebbe dovuto parlare con la figlia, così rientrò e disse che fuori c'era un grosso orso bianco che prometteva di farli diventare davvero ricchi se solo avesse potuto averla. La ragazza disse di no, non voleva, e così l'uomo uscì di nuovo e si accordò con l'orso bianco che che tornasse a sentire una risposta il prossimo giovedì sera. Intanto a casa cominciarono a tormentare la fanciulla, elencandole tutte le ricchezze che avrebbero ottenuto e i vantaggi che anche lei avrebbe avuto. Alla fine la ragazza acconsentì. Si lavò e rappezzò i suoi stracci, si adornò meglio che poteva e si preparò al viaggio. Non era molto ciò che aveva da portare con sé. Il giovedì sera l'orso venne a prenderla, lei gli montò in groppa con il suo fagotto e così si allontanarono. Dopo aver fatto un pò di strada l'orso bianco disse: "Hai paura?" No, non ne aveva. "Bè, tieniti ben stretta alla mia pelliccia e non ci sarà alcun pericolo" le disse.

Cavalca, cavalca, alla fine giunsero a una grande montagna. Allora l'orso bianco bussò, si aprì una porta ed entrarono in un castello, tutte le stanze erano illuminate, tutto splendeva d'oro e d'argento e poi c'era una grande sala con una tavola apparecchiata, ed era una tale meraviglia che non ci crederesti. Allora l'orso bianco le diede un campanello d'argento: se voleva qualcosa non aveva che da suonarlo, e l'avrebbe avuta. Dopo aver mangiato, e si faceva sera, le venne sonno per il viaggio e pensò che si sarebbe coricata volentieri; allora suonò il campanello, e quasi non l'aveva toccato che si ritrovò in una stanza con un letto fatto, così bello che chiunque avrebbe voluto dormirci, con piumini di seta e cortine e frange d'oro, e tutto quello che c'era era d'oro e d'argento. Ma quando si fu coricata ed ebbe spento la luce, una persona entrò e si coricò con lei: era l'orso bianco, che la notte gettava la sua pelle. La ragazza non riusciva mai a vederlo, perché veniva sempre dopo che aveva spento al luce e prima che facesse giorno se n'era già andato. Per un pò tutto andò bene, poi però la giovane si fece silenziosa e triste, perché stava sola tutto il giorno e aveva nostalgia dei genitori e dei fratelli. Quando l'orso bianco le chiese cosa avesse, gli confessò che era molto noioso stare sempre sola e che aveva nostalgia, ed era così triste perché non poteva andare da loro. "A questo c'è rimedio" disse l'orso bianco, "ma devi promettermi di non parlare da sola con tua madre, ma solo quando possono sentire anche gli altri. Ti prenderà per mano" continuò, "e ti vorrà portare in una stanza per parlare da sola con te, ma tu non devi farlo, altrimenti renderai infelici entrambi."

Una domenica l'orso bianco venne a dire che ora potevano andare dai suoi genitori. E così partirono, la ragazza in groppa, e camminarono per un bel pò; alla fine giunsero a una grande fattoria bianca dove le sorelle e i fratelli correvano e giocavano, ed era così bello a vedersi. "Lì abitano i tuoi genitori" disse l'orso, "ma non dimenticare quello che ti ho detto, altrimenti farai la nostra infelicità." No di certo, non se ne sarebbe dimenticata, e quando la ragazza ebbe raggiunto la fattoria, l'orso bianco tornò da dove era venuto. Nel vederla, i genitori furono incredibilmente contenti; gli sembrava di non poterla mai ringraziare abbastanza per quello che aveva fatto per loro: adesso stavano così bene, e volevano tutti sapere come stava lei, a casa sua. Lei stava benissimo, e aveva tutto ciò che poteva desiderare, disse; cos'altro disse non lo so bene, ma certo non vennero a sapere niente di preciso.

Il pomeriggio, dopo aver pranzato, andò come aveva predetto l'orso bianco: la madre voleva parlare da sola con la figlia in una stanza. Ma lei ricordò quello che aveva detto l'orso e non voleva assolutamente. "Avremo sempre tempo", disse, "per dirci quello che abbiamo da dirci." Come fu come non fu, la madre alla fine riuscì a convincerla, così lei dovette dire come stavano le cose. Allora raccontò come la sera, dopo che aveva spento la luce, veniva sempre una persona a coricarsi nel suo letto ma non riusciva mai a vederlo, perché prima che facesse giorno se n'era andato. Era molto triste, perché avrebbe tanto voluto vederlo, e di giorno stava tutta sola e si annoiava. "Ah, quello che dorme con te può anche essere un troll" disse la madre. "Ora ti darò un consiglio per vederlo, ti darò un mozzicone di candela da nascondere in seno: illuminalo mentre dorme, ma stà bene attenta a non lasciargli gocciolare addosso del sego." Bè, lei prese la candela e se la nascose in seno, e la sera l'orso bianco venne a prenderla. Dopo che ebbero fatto un pò di strada, l'orso chiese se non fosse andata proprio come aveva detto lui. Sì, non poteva negarlo. "Se hai dato retta ai consigli di tua madre, hai reso infelici entrambi, e fra noi tutto è finito." concluse. No, non aveva dato retta ai consigli materni.

Dopo essere arrivata a casa ed essersi coricata, tutto andò come al solito, e qualcuno venne a coricarsi accanto a lei. Ma a notte fonda, quando sentì che dormiva, si alzò, accese la candela e lo illuminò,

e allora vide che era il più bel principe che si potesse vedere, e fu subito presa da lui al punto che le sembrò di non poter vivere se non lo avesse subito baciato: e lo baciò, ma intanto fece cadere sulla sua camicia tre gocce di sego bollente, e lui si svegliò. "Ah, cos'hai fatto adesso?" chiese lui. "Hai reso infelici entrambi. Se solo avessi resistito un anno sarei stato salvo: ho una matrigna che mi ha fatto un incantesimo, così sono un orso bianco di giorno e uomo di notte. Ma ora è finita tra noi, devo lasciarti per andare da lei, abita in un castello che si trova a oriente del sole e a occidente della luna, e lì c'è anche una principessa con un naso lungo tre braccia, e ora me la devo sposare".
La ragazza pianse e si disperò ma non c'era niente da fare, lui doveva partire. Allora gli chiese se non poteva accompagnarlo. No, non era possibile. "Se mi dici la strada verrò a cercarti: questo almeno posso farlo?" disse lei. Si, questo poteva farlo, ma non c'era nessuna strada, era a oriente del sole e a occidente della luna, e lei non ci sarebbe mai arrivata. La mattina, quando si svegliò, il principe e il castello non c'erano più: era coricata su un piccolo spiazzo verde in mezzo a un bosco scuro e fitto, e accanto aveva lo stesso fagotto di stracci che aveva portato da casa. Dopo essersi stropicciata gli occhi e aver pianto a lungo, si mise in marcia e camminò per molti, molti giorni, finché giunse a una grande montagna. Lì davanti era seduta una vecchia che giocherellava con una mela d'oro. Le chiese se conosceva la strada per andare dal principe che stava con la matrigna, in un castello a oriente del sole e a occidente della luna e che doveva sposare una principessa dal naso lungo tre braccia.

"Come lo conosci?" chiese la vecchia, "Eri forse tu la ragazza che doveva sposarlo?" Sì, era lei, rispose.
"Così sei tu", disse la vecchia. "Bè, io so solo che abita nel castello a oriente del sole e a occidente della luna e tu ci arriverai tardi o non ci arriverai mai; ma ti presterò il mio cavallo e con quello potrai andare dalla mia vicina, lei forse saprà dirtelo; una volta arrivata, basta che tu dia un colpetto al cavallo sotto l'orecchio sinistro chiedendogli di tornare a casa. E questa mela d'oro puoi portarla con te." La ragazza salì a cavallo e cavalcò per molto, molto tempo, e alla fine arrivò a una montagna, e davanti c'era seduta una vecchia con un'arcolaio d'oro. Le chiese se conosceva la strada per il castello. Quella rispose come l'altra, che non ne sapeva nulla, ma certo era a oriente del sole e a occidente della luna: "E tu ci arriverai tardi o non ci arriverai mai, ma io ti presterò il mio cavallo e con quello potrai andare dalla mia vicina, lei forse saprà dirtelo; una volta arrivata, dovrai solo dare un colpetto al cavallo sotto l'orecchio sinistro e chiedergli di tornare a casa." Poi le diede l'arcolaio, dicendole che le sarebbe tornato utile. La ragazza salì a cavallo e cavalcò per molto, molto tempo, e alla fine arrivò a una montagna, e davanti c'era seduta una vecchia che filava con una conocchia d'oro. Le chiese se conosceva la strada per andare dal principe, e dove si trovava il suo castello. Andò nello stesso modo, e neanche quest'ultima conosceva la strada meglio delle altre, era a oriente del sole e a occidente della luna, questo lo sapeva; ma anche lei le prestò il suo cavallo e la indirizzò dal vento dell'est affinché, disse, chiedesse a lui: "Forse è pratico dei luoghi e ti può soffiare fin lì. Una volta arrivata, basta che tu dia un colpetto al cavallo sotto l'orecchio, e così tornerà a casa" disse la vecchia.

Cavalcò per molti e molti giorni ancora, per un tempo lunghissimo, ma alla fine arrivò, e chiese al vento dell'est se lui poteva indicarle la strada per arrivare dal suo principe. Sì, di quel principe aveva sentito parlare, disse il vento dell'est, e anche del castello, ma la strada non la conosceva, perché non aveva mai soffiato fin là. "Ma se vuoi posso accompagnarti da mio fratello, il vento dell'ovest, forse lui può saperlo perché è molto più forte di me; puoi salirmi in groppa, ti porterò fin lì". Lei fece come gli aveva detto e partirono veloci. Quando furono giunti a destinazione, entrarono in casa e il vento dell'est spiegò che la ragazza che aveva con sé era quella che avrebbe dovuto sposare il principe del castello a oriente del sole e a occidente della luna: si era messa in viaggio per cercarlo, e lui l'aveva accompagnata fin lì per sentire se il vento dell'ovest sapesse dove si trovasse. "No, così lontano non ho mai soffiato" disse il vento dell'ovest, "ma se vuoi ti accompagnerò dal vento del sud, che molto più forte di noi, ed è andato in giro da tutte le parti: forse lui potrà dirtelo. Puoi montarmi in groppa, ti porterò lì". Così fece e andarono dal vento del sud, e non credo ci abbiano messo molto. Quando arrivarono, il vento dell'ovest chiese se poteva indicarle la strada per il famoso castello, perché la fanciulla era quella che avrebbe dovuto sposare il principe. "Ah si", disse il vento del sud, "è lei? Ai miei tempi sono andato in giro da tutte le parti" disse, "ma così lontano non ho mai soffiato. Ma se vuoi ti posso accompagnare da mio fratello, il vento del nord, che è il più vecchio e il più forte di noi, e se lui non sa dov'è, allora non c'è nessuno al mondo che te lo possa dire. Puoi salirmi in groppa, ti porterò fin lì."

Quando arrivarono dal vento del nord, quello era così furioso che il suo soffio gelido si sentiva da lontano. "Cosa volete?" gridò da lontano facendoli rabbrividire. "Ah, non essere così rigido" disse il vento del sud, "sono io, e poi c'è quella ragazza che avrebbe dovuto sposare il principe del castello a oriente del sole e a occidente della luna, e vuole chiederti se sei stato lì e se puoi indicarle la strada, perché vorrebbe tanto ritrovarlo". "Certo che so dov'è" disse il vento del nord, "una volta ho soffiato fin lì una foglia e mi sono stancato tanto che dopo non ho avuto più la forza di soffiare per molti giorni. Ma se ci vuoi andare davvero e non hai paura di stare con me, ti prenderò in groppa e cercherò di soffiarti fin lì." Sì, voleva e doveva andarci, se era possibile in qualche modo: di paura non ne aveva, anche se fosse andata male. "Bene, allora per questa notte dovrai dormire qui", disse il vento del nord, "perché bisogna avere tutta la giornata, se vogliamo arrivare fin lì".

La mattina dopo, il vento del nord la svegliò presto e si gonfiò tanto che diventò grande e forte da far paura; e così partirono, altri attraverso l'aria, come se dovessero arrivare in un attimo alla fine del mondo. Per le campagne ci fun una tale tempesta che buttò giù case e boschi, e quando arrivarono sul mare fecero naufragare navi a centinaia. E così andarono avanti, così lontano che nessuno può credere quanto siano andati lontano, e sempre sopra il mare, e il vento del nord era sempre più stanco, era così sfinito che quasi non riusciva più a soffiare e volava sempre più basso e alla fine volò così basso che la cima delle onde le lambiva i talloni. "Hai paura?" disse il vento del nord.No, rispose lei, non ne aveva. Ma ormai non erano lontani dalla terraferma, e il vento del nord ebbe la forza di gettare la ragazza sulla riva sotto le finestre del castello a oriente del sole e a occidente della luna: ma era così stanco e sfinito che dovette riposarsi per molti giorni prima di poter tornare a casa. La mattina dopo lei si mise a giocare con la mela d'oro davanti alle finestre del castello, e la prima cosa che vide fu la nasona che doveva sposare il principe. "Ehi tu, cosa vuoi in cambio della tua mela d'oro?" chiese quella dalla finestra. "Non è in vendita né per danaro né per oro" disse la ragazza. "E se non è in vendita né per danaro né per oro, allora cosa vuoi in cambio? Puoi avere quello che vuoi" disse la principessa. "Bè, se posso salire dal principe che abita qui e restare con lui questa notte, allora te la darò" rispose la fanciulla. Si, poteva anche farlo, era possibile. La principessa ebbe la mela d'oro, ma la sera, quando la ragazza salì nella stanza con il principe, quello dormiva; lo chiamò e lo scosse, e intanto piangeva, ma non riuscì a svegliarlo, perché la sera gli avevano dato un sonnifero.

Al mattino, appena si fece giorno, la principessa dal naso lungo, venne e la cacciò via. Allora ella, a giorno fatto, si mise a girare sotto le finestre del castello a far girare l'arcolaio, e tutto andò come la prima volta. La principessa chiese che cosa voleva in cambio, e lei rispose come il giorno prima che non era in vendita né per oro né per danaro, se però l'avesse lasciata salira dal principe e rimanere tutta la notte, lo avrebbe avuto. Ma quando salì, quello dormiva di nuovo e per quanto lei gridasse e lo scuotesse, e per quanto lei piangesse, lui dormiva e non c'era verso di svegliarlo; e quando si fece giorno venne la principessa dal naso lungo e la mise di nuovo alla porta. Durante il giorno la ragazza si mise sotto le finestre del castello e cominciò a filare con la sua conocchia d'oro, e la principessa dal naso lungo voleva averla. Aprì la finestra e le chiese cosa volesse in cambio, e proprio come le altre due volte, la ragazza disse che gliel'avrebbe concessa in cambio di una notte con il principe. La notte le fu concessa. Nel castello c'erano dei cristiani prigionieri, e stavano proprio nella stanza accanto a quella del principe: avevano sentito una donna piangere e gridare per due notti di seguito e lo dissero al principe. La sera, quando la principessa gli portò l'acquavite, lui fece finta di bere e se la gettò alle spalle, perché si era accorto che era un sonnifero. Così quando arrivò la ragazza, il principe era sveglio e lei gli raccontò come fosse arrivata fin lì. "Bè, arrivi proprio al momento giusto" disse il principe, "perché domani mi sarei dovuto sposare; ma io quella persona non la voglio e tu sei la sola che può salvarmi. Dirò che voglio vedere cosa sa fare la mia sposa e la pregherò di lavarmi la camicia con le tre macchie di sego: di certo accetterà, perché non sa che sei stata tu a fare le macchie e per toglierle ci vogliono dei cristiani, non dei troll come lei. Io allora dirò che voglio sposare solo chi sarà capace di togliermi quelle macchie: tu ne sei capace, lo so". Ci fu grande gioia fra loro quella notte e il giorno dopo, giunta l'ora delle nozze, il principe disse: "Voglio vedere cosa sa fare la mia sposa." Era giusto, disse la matrigna. "Ho una bella camicia che voglio mettere per sposarmi, ma ci sono tre macchie di sego che bisogna lavare e io ho promesso di sposare solo colei che saprà farlo: se non ne è capace, non vale la pena di averla in moglie." Bè, pensavano che fosse una cosa da nulla e dissero di sì, e quella con il naso lungo si mise a lavare meglio che poteva, ma più lavava e strofinava, più le macchie diventavano grandi. "Ah, non sei capace di lavare" disse la vecchia troll, sua madre, "lascia fare a me!" Ma non aveva ancora preso in mano la camicia che fu ancora peggio, e più lavava e strofinava, più grandi e più nere si facevano le macchie. Allora dovettero mettersi a lavare gli altri troll, ma più passava il tempo e più la camicia diventava brutta, e alla fine sembrava tolta dalla cappa di un camino. "Ah, non siete buoni a nulla tutti quanti" disse il principe, "fuori da quella finestra c'è una stracciona: sono sicuro che lava molto meglio di tutti voi messi insieme. Ehi, tu, ragazza! Vieni dentro!" gridò. E lei entrò. "Sei capace di lavare questa camicia?" le chiese. "Ah non lo so," rispose lei "ci proverò". Aveva appena preso la camicia e l'aveva appena infilata nell'acqua che quella era bianca come la neve appena caduta, e ancora più bianca. "Sì, è proprio te che voglio sposare" disse il principe. Allora la vecchia troll si infuriò tanto che scoppiò, e credo che anche la principessa dal naso lungo e gli altri piccoli troll siano scoppiati, perché non ne ho più sentito parlare.

Il principe e la sua sposa liberarono tutti i cristiani prigionieri e portarono via tutto l'oro e l'argento che potevano portare e andarono a vivere molto lontano dal castello dal castello a oriente del sole e a occidente della luna.

martedì 6 ottobre 2009

...chi potrà dunque dire che io sono sola se il mondo è qui a guardarmi?


C'è un mondo dal quale proviene il mio nome.
Odeline proviene dal mondo mitologico legato agli elfi.
Odeline è un'elfo.

Gli elfi sono sono simboli degli elementi della natura.
Sono legati al fuoco, all'acqua, al vento, alla terra e a tutte le manifestazioni atmosferiche in generale.
Sono descritti come alti e magri ma forti e velocissimi, volto pulito, sereno, orecchie leggermente a punta. Posseggono una grande vista e un udito molto sensibile. Non hanno barba, hanno capelli perlopiù biondi e occhi chiari che si dice penetrino la persona fino a conoscerne i pensieri, si dice che siano dotati di telepatia.

Hanno voce splendida e chiara. Sono intelligenti ed armoniosi, con grande rispetto per i quattro elementi e per la natura. Magia

Talvolta alcuni possono essere capricciosi e talvolta benevoli con l'uomo che li rispetta, possono donare oggetti magici a coloro che sono puri di cuore e spirito e che desiderano aiutare. Sanno forgiare spade e metalli, fino alla conoscenza della magia.

Le loro compagne, al contrario, sono esseri graziosi. In origine pare che gli elfi siano stati concepiti come anime di defunti, poi furono venerati anche come potenze che favorivano la fecondità.

Abitano principalmente sugli alberi o in alcune foreste nascoste. Non danneggiano mai e in nessun modo la natura perché per loro è parte basica della loro vita ed esistenza. La considerazione che nutrono per la natura, concepita come una entità, un gran spirito eterico, madre di tutti gli esseri.

Essi riescono a camminare senza lasciare tracce, immuni alle malattie, resistono alle temperature estreme. Gli elfi hanno vita lunga invecchiando senza che la loro bellezza venga intaccata dal tempo. Si dice che siano immortali tranne quando si è in guerra.

Molteplici sono le leggende legate a questa figura mitologica, alcune delle quali parlano delle cattiverie che essi compiono nei confronti degli uomini e dei rapimenti dei bambini umani. Gli elfi hanno una forte gerarchia al capo della quale stanno le regine e i re delle colline delle fate, riconoscibili perché spesso ricoperti da un fresco manto di biancospini.

"La tua virtù mi rassicura: non è mai notte quando vedo il tuo volto; perciò ora a me non sembra che sia notte, né che il bosco sia spopolato e solitario, perché tu per me sei il mondo intero; chi potrà dunque dire che io sono sola se il mondo è qui a guardarmi?"

Sogno di una notte di mezza estate -William Shakespeare




Fonte:
Wikipedia
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